Un contributo per l'analisi e la discussione su #labuonascuola di Renzi
17 Ottobre 2014 | di Teresa D'Errico
Sembra che abbiamo fatto chissà cosa, ma in realtà non abbiamo combinato proprio niente (Chuck Palaniuk, Soffocare)
Quando si parla di scuola si pone l'accento, in genere, sul degrado dell'edilizia scolastica, che è un problema grave ed evidente, ma è solo quello che salta subito agli occhi, è quello che richiederà interventi mirati e precisi, sicuramente efficaci grazie agli opportuni stanziamenti di fondi, alle azioni di manutenzione e alla buona volontà degli amministratori locali.
Più difficile risulta parlare, invece, di quello che non si percepisce immediatamente con la vista, che è velato da strategici efficientismi, che è oscurato dalle ipocrisie di una pseudocultura tecnologica, e che si traduce in ingegnerismi organizzativi dettati da ansie economiche.
Il documento governativo pubblicato in rete con il titolo ''La buona scuola'' presuppone che la scuola finora in atto sia stata davvero cattiva, al punto da rendere necessaria l'ennesima riforma. Ma - attenzione! - non si pensi semplicisticamente a una riforma nel senso tradizionale del termine: Renzi ha parlato più volte di un nuovo ''patto educativo'', anche se, a ben guardare, di studenti, di pedagogia e di educazione non si parla affatto, se non nei termini di un restyling didattico basato sull'uso forzato e affrettato delle tecnologie digitali spacciate come urgente necessità di adeguare la scuola al mondo in cui viviamo.
La scuola del futuro progettata da Renzi
- riduce gli spazi del merito perchè considera merito l'ipercinesi extradidattica;
- svaluta l'azione educativa come un'arte rètro;
- parla di diversificazioni stipendiali sulla base di assunzioni di incarichi burocratici e organizzativi che nulla hanno a che fare con l'impegno per l'istruzione e la formazione degli studenti;
- mutua il linguaggio dalle logiche economiche affidando la formazione dei docenti a un sistema creditizio che certo non appartiene alla scuola come dimensione culturale e la cui esistenza conferma amaramente che la scuola è sempre più un'azienda e sempre meno un luogo di cultura;
- rinuncia al ''grande sogno'', alla aspirazione intellettuale di una professione docente volta a interagire con classi intese come comunità interpretanti e, anzi, il testo redatto dal governo precisa chiaramente che il punto non è più descrivere meticolosamente quali contenuti devono apprendere i nostri ragazzi, ma definire obiettivi di apprendimento e traguardi didattici moderni (p.100).
E questo, a quanto pare, è l'aspetto più inquietante della riforma: la finalità primaria per Renzi è puntare sulle competenze attraverso soluzioni efficaci e innovative: una scuola sprint, insomma, attiva, che raggiunga obiettivi (efficace) e che si rinnovi, riducendo in macerie l'elefantiaca macchina che finora ha però sfornato scrittori, medici, magistrati. E anche per quanto riguarda i docenti lo scenario non è diverso: l'orizzonte è quello di rafforzare le loro competenze professionali.
Se si analizza la parola competenza - ''comprovata capacità di utilizzare, in situazioni di lavoro (...) un insieme strutturato di conoscenze ... '' (D.L. n. 13 del 16.01.2013, art.2) - si affacciano alla mente amare riflessioni: prima di tutto turba l'affinità fonica tra la parola ''competenze'' e ''competizione''. E a ben guardare è proprio la competizione tra docenti ad essere incentivata da questa riforma: differenze stipendiali individuate in base al merito di chi tralascerà la didattica propriamente intesa, per svolgere attività di organizzazione, progettazione, tutoring, mentoring determineranno la nascita di professori di serie A, B, C, i primi selezionati dai dirigenti scolastici in base alla loro disponibilità a collaborare, gli altri discriminati perchè si limiteranno a lavorare in modo ''tradizionale'', cioè con i ragazzi, in classe, per formare esseri pensanti. Queste disfunzioni priveranno la scuola della sua sostanza culturale e di ogni intenzione pedagogica, riducendola alla operosa ''fabbrichetta'' di materiale umano strumentale alle logiche economicistiche imposte dal mercato. Del resto il testo renziano chiarisce al quinto punto che quella progettata è una scuola fondata sul lavoro, per ricordare, citandolo, il primo articolo della Carta costituzionale: lo scopo è, precisamente, raccordare più strettamente scopi e metodi della scuola con il mondo del lavoro e dell'impresa. E dell'articolo 33 (L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento) cosa facciamo? Quale libertà potrà mai esserci in una scuola dichiaratamente asservita al potere economico, anzi, studiata in raccordo con le finalità dell'impresa, di cui, deve anche assorbire i metodi? Renzi sceglie di omettere ogni riferimento agli articoli 33 e 34 della Costituzione, sui quali è impostata la scuola repubblicana: ma pensarla ''libera'' fa paura!
L'economicismo contemporaneo non ha solo inebetito la politica subordinandola agli interessi dei grandi capitali finanziari, ma ha anche irretito la pedagogia, che sembra sponsorizzare l'efficienza, la prestazione, l'acquisizione delle competenze come indici subordinati al criterio acefalo della produttività. (M. Recalcati, L'ora di lezione).
Non possiamo affidarci solo al presunto valore delle competenze! Per distruggere Hiroshima e Nagasaki è bastato un dito competente che abbia premuto un pulsante, quello giusto, senza dubbio! Ma è mancato un cervello per fermarlo! La mortificazione dell'umanesimo a vantaggio della tecnica e degli specialismi produce una società che dimentica la bellezza, che si fa dominare dalla macchina e ignora che fare e agire non sono sinonimi. Fare significa eseguire un ordine, agire vuol dire essere consapevoli delle conseguenze dei propri comportamenti: compito della scuola è formare persone moralmente belle, capaci di orientare le proprie azioni verso ideali costruttivi, tali da rendere, cioè, l'uomo degno di questo nome. E per raggiungere questo obiettivo occorre restituire valore alla cultura, in un momento storico in cui, invece, malauguratamente, hanno preso il sopravvento i valori di mercato.
Ancora, il testo renziano punta alle competenze come capacità di rispondere a input esterni (mondo del lavoro, economia, impresa) e non tiene conto che nella scuola ci sono giovani che hanno fame di senso, che vogliono conoscere i loro desideri, che hanno diritto di spiccare il volo e di nutrire il grande sogno, l'ideale di un mondo migliore. Avere cultura significa adattarsi, sì, all'ambiente ed essere uomini e donne del proprio tempo, ma con la coscienza critica di chi sa prendere le distanze, di chi sa opporsi ad un sistema disfunzionale e spesso corrotto, perchè vuole cambiare e iniziare una rivoluzione a partire dal proprio cuore. Cos'è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. (Camus, L'uomo in rivolta). I nostri ragazzi hanno bisogno di imparare a dire ''no'' a chi li vuole proni a un pragmatismo efficientista che si muove nel mare indistinto di un vuoto senza proposte e senza contenuti, ma presentato con il design dal cromatismo acceso e invitante: un nulla che sembri appetibile e appealing!
A fronte di un invidiabile nitore espositivo e grafico quello che colpisce nella riforma di Renzi è la semplificazione estrema, lo ''sloganismo'' pubblicitario, l'ansia del cambiamento: frenesia del nuovo a tutti i costi e velocità sono le parole d'ordine di un marinettismo di ritorno. E non vengano profanati i nomi di Don Milani e di Maria Montessori citati dal testo del governo come modelli ispiratori di un progetto che di educativo e pedagogico non ha nulla.
E, infine, è opportuno affrontare il punto più critico della riforma, esplicitato a pagina 9 del testo governativo: la scuola ha il dovere di stimolare i ragazzi a capire il digitale oltre la superficie. A non limitarsi ad essere ''consumatori di digitale''. A non accontentarsi di utilizzare un sito web, una app, un videogioco, ma a progettarne uno. Perchè programmare non serve solo agli informatici. Serve a tutti, e serve al nostro Paese per tornare a crescere, aiutando i nostri giovani a trovare lavoro e a crearlo per sè e per gli altri. Pensare in termini computazionali significa applicare la logica per capire, controllare, sviluppare contenuti e metodi per risolvere i problemi e cogliere le opportunità che la società già oggi ci offre.
Insomma, i ragazzi devono avere a che fare con i computer sempre: non solo nel tempo libero, perchè ormai giocano inevitabilmente con i videogames, ma anche a scuola. Non c'è scampo! E perchè? Ma è ovvio! Per tornare a crescere, per trovare e creare lavoro! Economia, economia, economia. Il mantra è: competenze, produttività, efficienza, velocità. L'iperattivismo della digitalizzazione forzata profila scenari inquietanti che Recalcati sintetizza in una frase provocatoria, ma non poi così distante dal prossimo futuro: nella scuola che verrà un insegnante potrebbe essere tranquillamente sostituito da un computer e il risultato sarebbe lo stesso.
Piattaforme on line, classi virtuali, e-learning nascondono due conseguenze gravi:
a) carattere pervasivo della scuola digitalizzata: i docenti diventeranno persone ''a una dimensione'' ridotte a vivere per la scuola e a dedicare alla scuola anche il tempo personale e la vita privata, perchè curare una piattaforma on line e correggere esercizi in una classe virtuale, inserire materiale di studio costringerà gli insegnanti ad essere sempre connessi e a fare del lavoro la loro sola vocazione esistenziale in una sequela ininterrotta di operazioni: studiare, preparare e inviare dispense, strutturare e correggere verifiche, rispondere a dubbi e questioni, aggiornare i siti, i blog, i forum...;
b) riduzione drastica dell'organico in servizio: un solo docente per tutte le prime, un altro per tutte le seconde e così fino alle classi terminali di ogni ciclo, in videoconferenza riverseranno la loro sapienza preconfezionata, predisporranno e invieranno verifiche, naturalmente on line, e chi c'era un tempo a insegnare nelle classi per incantesimo sparirà! Niente incontri tra persone, si potrà seguire tutto da casa, la scuola non sarà più un luogo di socializzazione e di confronto: non esisterà proprio più!
Il digitale ha soppiantato il cartaceo e ora si prepara a sostituire l'umano! La distopia di Fahrenheit 451 si sta apocalitticamente avverando. Una riforma incendiaria sta bruciando la cultura. Digitalizzare, disumanizzare la scuola, pensare solo alle innovazioni procedurali è la maschera necessaria a nascondere il bisogno di svuotare la scuola di senso e di contenuto, con un solo obiettivo: togliere potere al pensiero critico.
Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinchè possano pescare con questi ami, fatti che è meglio che restino dove si trovano. (R. Bradbury, Fahrenheit 451).
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