G. Pacchiano, Di scuola si muore, [Anabasi], Milano 1993 *
04 Settembre 2015 | di Stefano Avanzini
Il ’68? Al di là dei cascami ideologici, che nessuno rimpiange (il sei politico, leggiamo Gramsci e non la letteratura italiana, come se Gramsci fosse diventato Gramsci senza Dante e Leopardi), non è stato il ’68 a introdurre per la prima volta nella scuola italiana Marcuse e la Scuola di Francoforte, Levi-Strauss e Margaret Mead, Freud e il free-jazz & Co? Non è stato il ’68 a far entrare un po’ d’aria nuova nel tanfo stantio del “Si studia perché bisogna studiare”, re nudo che ha finalmente trovato il suo bambino? Non è stato il ’68 a insegnare – con Don Milani e Barbiana – che gli ultimi saranno coi primi, nel Paradiso della condivisione delle competenze anziché nell’Inferno della competizione delle saccenze? Ma il bel sogno finisce, il miraggio svapora, e nel cassetto rimane... la 'Buona Scuola'.
È, un Preside - mèga thàmbos idèsthai, in tempi in cui nelle aule di scuola all’ormai retro e indigeribile gallicismo della rimbaudiana alchimia delle vocali si è sostituito il più moderno e anglofilo rembaudiano grido di guerra FreeFireYourTeacherYourself, pardon, honni soit qui mal y pense, FreeCall-upYourThreeYearTeacherYourself – a dirci queste cose, a narrarci con toni e colori collodiani quae ipse miserrima vidit / et quorum pars parva fuit: qualche cosa rimane, tra il telefono delle supplenze e il cielo (sempre più disertato e deserto) della ricerca come ‘antipedagogia’, delle programmazioni e delle”libere letture liberamente commentate”, dopo i tempi ingessati in cui in principio era il Programma, e il Programma era presso Dio, e il Programma era Dio, tra i fogli morti di ancillari disamori d’ufficio e le pagine vive di Manzoni e di Melville o Collodi , tra ingessate scrostature e biblioteche segregate in cantina, tra rituali d’immaturità (San Firmino) e pretesi esami di maturità, tra l’essere delle discipline e il nulla delle didattiche... Qualche cosa rimane: ma a chi lasciarne le chiavi, a Zelda o a Martina?
Una domanda all’autore, e vorremmo che ci rispondesse con lo stesso piglio di Gianburrasca del libro: nella scuola dell'altro ieri della mara(vi)gliana riforma dei cinque ultrasensi segreti della Parola, pardon, del Verbo, del NOS e del NOF, nella scuola di ieri della Triplice Impresa (si scrive Inglese, Informatica e Impresa, ma la pronuncia è una sola), di Liceotto e le sue sorelle clonate che tanto mieton successo in passerella, della 'Buona Scuola' di oggi di MultiSurfTasting didattico e di MasterChefDidaCalling-up dirigenziale che cosa rimane del desiderio di apprendere e del piacere d’insegnare? Che la (poco) fascista e molto onesta e gentile riforma ventitreana del Bon Giovanni del Croce, con i suoi liberi curricula di docente, di classe nel bene e nel male, fosse più milaniana e pasoliniana che non si creda, roba quasi da ’68 (quello vero)? Che la demagogia cialtrona del Gramsci senza Dante per tutti sia meno milaniana e pasoliniana e più maravigliana e morattiana e renziana che non si creda, gemella neanche tanto diversa dalla demagogia ciarlona dell’Inglese senza Eliot, dell’Informatica senza Pitagora e Archimede, dell’Impresa senza Adam Smith per tutti e per nessuno della Scuolazienda del Terzo Millennio, bipartisanamente biprosopa, uguale in fotografia da sinistra o da destra, lontane anni luce l’una e l’altra da Barbiana (“Il sapere serve solo per darlo. “Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”... “ – ed è pur vero che se nessun maestro è un’isola, non è men vero che non si è mai soli con un libro o un telescopio o un microscopio) come da Casarsa (“... il difficile (che è poi il nuovo) appassiona sempre i ragazzi: sì, si tratta proprio di una passione, come quella per il gioco”). Che inseguire il successo scolastico qual ch’esso sia voglia dir per la scuola abdicare a se stessa, che il metter le esigenze del discente davanti e al posto di quei bisogni che potrebbe ancor non sapere di avere (in un liceo, quel solido bagaglio di conoscenze e competenze disciplinari propedeutico e necessario ma non sufficiente a un proficuo prosieguo universitario) sia un venir meno a quel compito costituzionale (art. 3, c. 2: senza il Diritto e l’Economia all over the School?!?) che già le parole di Condorcet alla Convenzione assegnavano alla scuola libera, pubblica, gratuita: “la legge mi (scil. a me cittadino) garantisce una completa uguaglianza di diritti, ma non mi dà i mezzi per conoscerli [...] così la mia ignoranza mi mantiene dipendente da tutto il resto [...] l’istruzione deve essere universale, estesa cioè a tutti i cittadini in quanto tali [...] abbracciando l’intero corpo di conoscenze e assicurando agli uomini, in ogni momento della loro vita, l’opportunità di confermare il proprio sapere e di acquisirne ancora”. Parole illuminate e illuminanti, di un matematico al quale la lama della ghigliottina ha chiuso la bocca tagliandogli la testa: ora è sufficiente una riforma.
È vero, insegnare stanca... uccide, forse, a volte... ma una cosa è certa: insegnare affranca.
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* Un libro da rileggere (ed eventualmente ripubblicare: l’autore è quello che ha promosso e fatto pubblicare il libro di Giovannone), insieme ai segmenti anti-bastoncini di Lucio Russo, alle pagine sulla scuola di Antonio La Penna, alla memorialistica scolastica di Sandro Onofri o Eraldo Affinati, oltre ai contributi di ieri o di oggi di Polacco, Ferroni, Simone, Mastrocola, De Monticelli, Nussbaum e quant’altri. Perché, a leggere questi volumi dell’oggi (era Giannini) e quelli di ieri (era Moratti / Berlinguer / Fioroni / Gelmini / Profumo / Carrozza) pare che il tempo si sia fermato, dalle parti dei bidoni dell’impero, dove seguitiamo a raschiare il fondo e ingollarci i cascami della dismessa didattica anglo-sassone.
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