24 Gennaio 2019 | di Gianluigi Dotti
“L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti”
[Hannah Arendt, La crisi dell’istruzione, in Tra passato e futuro, ed. orig. New York 1961]
Questo intervento riprende ed approfondisce i temi già trattati in precedenti seminari per il Centro studi nazionale della Gilda degli Insegnanti e il contributo preparato per il Gruppo di lavoro “Adolescenza”, costituito presso il MIUR nei primi mesi del 2018 e guidato dalla Consigliera Anna Serafini.
In premessa è necessario contestualizzare i profondi mutamenti avvenuti nel mondo del lavoro e, in particolare, nei processi della produzione nella seconda metà del XX secolo.[1]
Nelle nazioni che nel corso del 1900 hanno sviluppato un’economia industriale e guidato i rapporti di forza della politica internazionale, negli ultimi decenni del secolo, ha preso forma la “Rivoluzione informatica”, che attraverso lo stravolgimento dei processi della produzione ha completamente trasformato il mondo del lavoro. Molti storici e studiosi di diverse discipline sostengono che la “Rivoluzione informatica” abbia lo stesso esplosivo contenuto della “Rivoluzione neolitica”, che ha visto il passaggio della condizione dell’uomo da cacciatore-raccoglitore ad agricoltore, e della “Rivoluzione industriale” col passaggio dall’agricoltura all’industria.[2]
Lo schema interpretativo ricorrente è che il mutare dei processi di produzione materiale, quelli che permettono all’uomo di procurarsi il sostentamento quotidiano (di che vivere), modifica la struttura della società, la vita quotidiana e il rapporto tra le generazioni (sottolineo questo ultimo elemento perché potrebbe essere utile a spiegare molti atteggiamenti dei nostri attuali studenti che fatichiamo a comprendere).
Tornando al modello storiografico, si può rilevare come il passaggio dalle attività di caccia e raccolta all’agricoltura abbia introdotto profondi cambiamenti nella vita di tutti i giorni delle persone che sono passate da un tipo di cultura nomade ad una sedentaria. Risulta chiaro che l’uomo approdato alla cultura sedentaria ha sviluppato relazioni sociali e familiari nuove rispetto al passato, modi di vivere quotidiani di adulti e giovani profondamente diversi da quelli millenari dei loro antenati nomadi. Si è creato un nuovo ordine sociale e, soprattutto, un nuovo modo di concepire se stessi e il posto occupato nella società, un nuovo modo di “stare insieme”.
Allo stesso modo l’affermarsi del sistema industriale ha spostato il maggior numero di lavoratori dalla campagna alla città con tutto ciò che questo comporta nella vita delle persone: l’affermarsi, ad esempio, della famiglia mononucleare a scapito della patriarcale con un nuovo ruolo per la donna e la modifica del rapporto tra le generazioni.
Questo nuovo ordine, definito come la “società dei produttori”, è quello che i più anziani di noi hanno conosciuto nel periodo della loro formazione, acquisendo così, senza meriti che non siano la loro età, la capacità di confrontare tutto quel mondo con il nuovo mondo della “Rivoluzione informatica”. Il valore aggiunto di questo confronto ha permesso alle generazioni del boom economico e demografico di acquisire con la consapevolezza dei principi promossi dalla Costituzione, tipici della “società di produttori”, la capacità di formulare giudizi di merito positivi/negativi rispetto ai valori o disvalori promossi dalla “società dei consumatori”.
Le generazioni del XXI secolo, non per colpa loro, sono prive di questo valore aggiunto; per loro la possibilità di acquisire le conoscenze necessarie ad esercitare il pensiero critico che nasce dal confronto è possibile solo nella dimensione scolastica, in particolare nell’insegnamento della Storia, perché tutto quello che li circonda appartiene sia nella forma che nella sostanza alla “società dei consumatori”[3].
Senza una preliminare e approfondita analisi del cambiamento epocale, della nuova struttura della società, del nuovo ordine e dei nuovi rapporti tra le generazioni, che a partire dai modi della produzione sta generando la “Rivoluzione informatica”, c’è il fondato rischio che le ipotizzate soluzioni delle problematiche dell’educazione e del suo rapporto con la scuola oggi in Italia non portino ad alcun risultato, anzi c’è il rischio concreto che possano peggiorare la già difficile realtà.
In questa confusa fase di transizione che stiamo vivendo, ritengo che l’antinomia tra le ipotesi di intervento della comunità scolastica che diversi commentatori hanno rilevato “Da un lato si sottolineano inadeguatezza, mancanza di autorevolezza, incapacità di fuoriuscire da vecchi modelli del passato. [...] Dall'altro lato, invece, si chiede alla scuola di ricoprire un ruolo maggiore, anzi, essenziale nel rispondere a nuove domande che per numero e qualità si differenziano, anche molto, dal passato”, nasca proprio dalla mancata consapevolezza delle caratteristiche fondamentali del nuovo ordine e dalla scarsa chiarezza nell’analisi del presente, che si materializza in un profluvio di luoghi comuni del “politicamente corretto” sull’educazione e sul ruolo dell’istruzione.
La “Rivoluzione informatica” attraverso la “robotizzazione” dei processi produttivi ha modificato la stessa natura della nostra società (i fondamenti). Gli studiosi hanno rappresentato questo cambiamento sostenendo il passaggio dalla “società dei produttori” alla “società dei consumatori”. La principale preoccupazione delle aziende, e quindi l’impiego delle risorse a disposizione, non è più legata alla quantità di merci da produrre, ma il dispiego di forze è tutto orientato alla necessità di vendere la maggiore quantità di prodotti. La stessa composizione della popolazione lavoratrice viene stravolta dalla nuova “meccanizzazione informatica” e, in Italia e nei paesi (già) industrializzati, il personale impiegato nell’industria diminuisce in maniera consistente mentre aumenta il numero degli addetti del settore terziario e dei disoccupati o lavoratori precari.
Il presente dei nostri adolescenti è il digitale, infatti l’informatica non si è limitata ai processi produttivi, ma è diventata con internet l’essenza della vita quotidiana dei giovani (e anche dei meno giovani). Per loro non esiste neppure la possibilità del confronto con il modo di vivere della società industriale, perché i giovani vivono la “virtualità” del digitale da sempre (da quando sono nati, cioè da tutta la loro vita).
Per comprendere il presente dei nostri adolescenti è quindi necessario conoscere in cosa consiste questa “società dei consumatori” e quali sono gli elementi fondamentali che la differenziano da quella precedente dei produttori. Ancora di più, per ipotizzare interventi che abbiano qualche possibilità di successo, è propedeutico decidere se questo “nuovo ordine” è accettabile oppure no da noi adulti che siamo in grado di confrontare i valori e gli stili di vita dei due periodi.
Il compito è senza dubbio molto complesso e richiede tempo e fatica. Uno degli studiosi più attenti al tema della “società dei consumi” è Zygmunt Bauman che nel suo testo Homo consumens[4] ha definito il nuovo ordine mondiale come “l’evaporazione del potere politico centralizzato dello Stato verso la terra di nessuno dello spazio globale sovranazionale, il passaggio di gran parte delle politiche in passato amministrate dallo Stato a ‘politiche di vita’ gestite e servite individualmente e l’’esternalizzazione’ di una parte crescente di funzioni della vita che passano dallo Stato al mercato”.
Nella sua analisi l’autore, a titolo di esempio, affronta alla luce della “società dei consumatori” il significato di due valori fondamentali del passato: cittadinanza e libertà.
Secondo Bauman nel contesto del XXI secolo il cittadino è sostituito dal consumatore, infatti egli afferma che “la divaricazione tra il potere dello Stato e politica e la conseguente privazione dello Stato ormai non più sovrano sia di potere che di iniziativa politica, insieme al controllo assunto dal mercato sui servizi più importanti, trasforma i cittadini in consumatori”.
Allo stesso modo alla libertà, quella che emancipa “da doveri insopportabili e da irritanti proibizioni, o da abitudini ottuse e monotone”, quando “diventa una cosa abituale, e si trasforma nel pane di tutti i giorni” subentra “l’orrore della responsabilità” e “le notti che seguono le giornate di scelte obbligatorie sono piene di sogni di liberazione dalla responsabilità”.
Anche la percezione del tempo dei “consumatori” porta gli individui ad illudersi di poter “conquistare il tempo” e padroneggiarlo. La conseguenza di questa illusione è che questi diventano intolleranti “verso ogni tipo di frustrazione, e non più capaci di fare fronte ad alcuna dilazione della gratificazione, che per loro non può non avere valenza immediata”.[5]
Anche riguardo all’apprendimento Bauman sostiene che nell’”incessante processo di rinnovamento/rimozione” la “vita del consumatore è una vita di continuo apprendimento; e, parimenti di rapido oblio.” Una bella similitudine chiarisce questo concetto: “un consumatore che non si liberi, a breve, di tutto ciò che ha acquistato, è un po’ come un vento che ha smesso di soffiare”.
La “filosofia” del “consumo” investe ogni angolo della vita privata e sociale degli individui del XXI secolo, tanto che Bauman giunge all’affermazione che il “principio etico alla base della vita del consumatore” consiste nel credere che “è illegittimo sentirsi soddisfatti.”[6] La soddisfazione del consumatore è solo in apparenza l’obiettivo della società dei consumi, ma la vera essenza del nuovo ordine sociale è “la sistematica tendenza a minimizzare, con toni di disprezzo, i bisogni di ieri, a rappresentarli come imbruttiti, inutili, ‘sorpassati’, e più ancora a screditare l’idea stessa che la vita del consumatore debba essere guidata dalla soddisfazione dei bisogni”. Solo con il “prerequisito” dell’insoddisfazione i consumi possono aumentare all’infinito.
Se quello descritto dagli studiosi più accorti e critici è lo scenario politico e sociale di questo inizio di XXI secolo (il nuovo ordine), non possiamo pensare che la scuola sia un’isola felice nella quale, in modo naturale, permangono le logiche e i valori della “società di produttori”.
La principale ricaduta del nuovo ordine politico e sociale sui sistemi scolastici di tutto il mondo è il tentativo delle forze che governano la “società dei consumi” di trasformare la scuola da istituzione a quasi-servizio. Questa trasformazione, che segue il modello anglo-americano, è già avvenuta in numerosi paesi e anche in Italia ha iniziato il suo percorso con le riforme di questi ultimi decenni, indipendentemente dal colore politico dei governi che le hanno promosse. A conferma della tesi di Bauman, secondo cui non sono più gli organismi politici eletti democraticamente che governano le nazioni e, di conseguenza, neppure le politiche scolastiche.
Infatti, le riforme del sistema scolastico che si sono succedute in Italia nei primi decenni del XXI secolo, dalla riforma Moratti alla “Buona Scuola”, quella della legge 107/2015, che è bene ricordarlo non hanno trovato alcuna soluzione alle gravi problematiche dell’istruzione in Italia, sono manifestazioni del mutamento profondo e radicale della funzione della scuola oggi, divenuta un quasi-servizio al servizio della logica del mercato e del consumatore, rispetto a quello individuato dai padri costituenti, i quali agivano all’interno dei valori della “società dei produttori”. Alla scuola istituzione della Repubblica in quel contesto, a metà del XX secolo, era stata affidata la funzione costituzionale di perseguire l’interesse pubblico della società formando il cittadino e il lavoratore ai valori della Costituzione, dotandolo di specifiche competenze professionali.[7] Quella funzione che Hanna Arendt chiama il “compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti”.
Nel nuovo ordine della “società dei consumi” dove, come ricorda Bauman in “Vita liquida” “l’industria di smaltimento dei rifiuti [non si riferisce solo ai rifiuti materiali ma anche a quelli non materiali] assume un ruolo dominante nell’ambito dell’economia della vita liquida”, la scuola non ha più la funzione di formare il cittadino, ma il consumatore: quello che produce i rifiuti.
La crisi della scuola, che è la crisi dell’istruzione e dell’educazione tutta, è strettamente legata a questa fase di transizione nella quale ha esordito il XXI secolo.
Come sostiene Frank Furedi, docente di sociologia dell’Università del Kent (GB), che di recente si è occupato della crisi dell’istruzione e dell’educazione, “i segni del malessere della scuola [...] dipend[ono] da un guasto più essenziale: la crisi dell’autorità adulta”[8] e di conseguenza investono l’ambito dei rapporti tra le generazioni. Infatti, le polemiche tra gli adulti, preoccupati principalmente di giustificarsi, di cui è esemplare “la disinvoltura con la quale mamme e babbi criticano gli insegnanti davanti ai propri figli”, fanno venir meno la solidarietà adulta e quelle critiche sminuiscono “non solo il prestigio degli insegnanti, ma quello degli adulti in generale”. In questa fase storica gli “adulti appaiono preoccupati soprattutto di giustificarsi: i genitori chiedono più severità e disciplina nelle aule e gli insegnanti e i politici richiamano i genitori alle loro responsabilità”.
In questo contesto, quando “l’autorità adulta non è accettata, gli sforzi degli insegnanti e le risorse che la società investe nell’istruzione finiscono per andare sprecati”.
In “Fatica sprecata” l’autore analizza gli effetti negativi sull’istruzione dello status ambiguo (quello di oggi) dell’esercizio dell’autorità adulta. Tra questi segnala: “la crescita di idee e prassi pedagogiche che mettono in dubbio la conoscenza per materie, portando ad una svalutazione dell’apprendimento teorico”; la svalutazione del ruolo degli insegnanti che “invece di fungere da figure di autorità [...] dovrebbero diventare dei ‘facilitatori’”; l’aspettativa che “la scuola trovi soluzioni a problemi per cui la società nel suo insieme non ha risposte”. Anche per quanto riguarda il problema della gestione delle classi “la confusione riguardo all’esercizio dell’autorità adulta ha minato le forme di disciplina che dipendono dal prestigio”.
Ben consapevole che in un intervento come questo non è possibile addentrarsi in un’analisi più dettagliata, questi brevi cenni possono tuttavia già chiarire che il periodo storico che stiamo vivendo presenta una realtà politica e sociale, un nuovo ordine, in cui molti punti di riferimento del recente passato sembrano scomparsi, o perlomeno sbiaditi.[9]
Per concludere, quindi, ritengo necessario continuare ad approfondire l’analisi del nuovo ordine della “società dei consumatori” e sviluppare un confronto con i valori della “società dei produttori” al fine di ipotizzare percorsi di educazione e istruzione che consentano ai nostri giovani di essere protagonisti attivi, e non consumatori passivi, della loro epoca così come ha ricordato, nel discorso sulla “responsabilità” in occasione dell’apertura dell’anno scolastico 2009, l’allora presidente degli USA Barak Obama agli studenti americani.[10]
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Prof. Gianluigi Dotti - Insegnante di Lettere nella Scuola secondaria di secondo grado dal 1988. Coautore del testo “Le carte dei poveri. L'Archivio della Congregazione di carità e la beneficenza a Chiari in età moderna e contemporanea” a cura di Sergio Onger. Contributi di G. Dotti, R. Gallotti, R. Mantegari. Grafo edizioni, maggio 1999. Vice-caporedattore della rivista “Professione docente” e autore di numerosi contributi sulle tematiche di politica scolastica. Formatore per l’Associazione Docenti art. 33, ente riconosciuto dal MIUR ai sensi della direttiva 170/2016. Responsabile del Centro studi nazionale della Gilda degli Insegnanti e membro della Direzione nazionale della Gilda degli Insegnanti.
[1] Molto interessante a questo proposito il testo di Harry Bravermann, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo. Einaudi, Torino, 1978. L’autore nel ventesimo capitolo, utilizzando una mole di dati impressionante raccolti negli USA, confuta l’opinione “universalmente accettata nei discorsi comuni e accademici” che “le mutate condizioni del lavoro di fabbrica e d’ufficio” grazie al processo di meccanizzazione “richiedano una popolazione lavoratrice ‘meglio preparata’, ‘meglio istruita’ e quindi ‘riqualificata’”.
[2] Si vedano a titolo di esempio tra i tanti i testi di: Tommaso Detti e Giovanni Gozzini, Storia contemporanea II. Il Novecento. Paravia-Bruno Mondadori, Milano, 2002. Davide Parmigiani, Didattica e tecnologia diffusa. Riflessioni per un'antropologia multimediale. Franco Angeli, Milano, 2004.
[3] Sul tema della Storia come asse culturale di una possibile riforma della scuola in Italia si veda Massimo Bontempelli, Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana? in Koiné nn. 1-2 del giugno 2000.
[4] Zygmunt Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi. Edizioni Erickson, Trento, 2007. Ma si veda anche il fondamentale testo di Bauman, Vita liquida. Laterza, Bari, 2006.
[5] Zygmunt Bauman, ibidem. Sull’argomento cita Alain Ehrenberg, La fatigue d’ètre soi. Paris, Odile Jacob, 1998. Bauman condensa il pensiero di Ehrenberg “la sofferenza umana di oggi tende per lo più a scaturisce dalla sovrabbondanza di possibilità, piuttosto che da un eccesso di divieti”.
[6] Bauman, ibidem, pag. 24.
[7] Centro studi Gilda, Il limite dell’utile. A cura di Serafina Gnech. Franco Angeli, Milano, 2001.
[8] Frank Furedi, Fatica sprecata. Perché la scuola oggi non funziona. Vita e pensiero, Milano, 2012.
[9] Giuliana Ukmar, Se mi vuoi bene, dimmi di no. Franco Angeli, Milano, 2000.
[10] http://www.lastampa.it/2009/09/08/cultura/opinioni/editoriali/ragazzi-volete-il-successo-dovete-studiare-NdjJRdFCp1Ea4uOK9gPN7J/pagina.htm – Il saluto di Barak Obama agli studenti americani all'inizio dell'anno scolastico è incentrato sugli stessi valori che lo hanno ispirato nel rivolgersi agli africani e ai neri d'America: responsabilità, impegno, perseveranza sono indispensabili per riuscire nella vita. Nessuna traccia di quella retorica piaciona e giovanilista così frequente da noi in chi parla agli studenti; neanche il minimo cenno a un qualche "diritto al successo formativo". http://gruppodifirenze.blogspot.it/2009/09/qualcuno-fara-ai-nostri-ragazzi-un.html
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