...ma, l’impegno dell’attuale maggioranza politica non era quello di abrogare la legge 107? perché riesumarne una parte, che era già stata disapplicata dal Decreto 59?
30 Gennaio 2019 | di Maurizio Berni
Le recenti novità in merito alle modalità di accesso alla professione docente nel nostro Paese, che, non dobbiamo dimenticare, sono limitate alla scuola secondaria, inducono alcune riflessioni sul modo in cui i decisori politici affrontano la programmazione, l’attenzione all’equilibrio tra domanda e offerta di insegnanti (estremamente variabile in relazione alle diverse discipline e alle diverse aree geografiche), i problemi legati all’invecchiamento della professione, gli strumenti utilizzati per la pianificazione a breve, medio e lungo termine del fabbisogno di personale.
Il “brusco” (nei tempi e nei modi) ritorno ad un passato pre-legge 341 del 1990, che prevedeva una specializzazione post-laurea per l’insegnamento nella scuola secondaria (attuato per 10 anni con le SSIS), e l’attuale proposta di un’abilitazione da acquisire mediante concorso, senza alcun tirocinio professionale, fanno infatti pensare che da parte del decisore politico attuale ci sia la constatazione di qualche errore (che però non viene esplicitato) nella programmazione del fabbisogno di docenti, da parte dei governi precedenti.
Sono possibili alcune riflessioni preliminari di tipo qualitativo: ci si può aspettare una maggiore disponibilità ad investire nella professione docente da parte:
- di chi vive in un contesto economico che offre meno possibilità di lavoro nell’impresa e nel suo indotto, nel proprio territorio
- di chi ha scelto una carriera accademica che offre sbocchi naturali in questa professione, o che comunque ha meno sbocchi nel mondo dell’impresa e del suo indotto
Incrociando le due dimensioni, culturale e geografica, otteniamo un ampio ventaglio di “disponibilità personali” di investimento nella professione, che vanno da un minimo (laurea in discipline che aprono molte possibilità lavorative, conseguita in una zona geografia il cui contesto economico è caratterizzato da un’ampia offerta di opportunità lavorative), ad un massimo (laurea in discipline con sbocco naturale nella professione, o che offrono poche possibilità lavorative, conseguita in una zona geografica economicamente depressa).
Possiamo anche mettere, per fissare le idee, delle “etichette” a queste situazioni tipo, facendo attenzione a non cadere nei luoghi comuni. Potrebbe far parte della prima categoria di situazioni-tipo il caso di una laurea in ingegneria conseguita, ad esempio, in Lombardia o in Veneto; mentre potrebbe far parte dell’ultima categoria una laurea in lettere classiche conseguita in un’università di qualche zona economicamente depressa del sud del nostro paese. Nel primo caso la necessità di una preparazione specifica alla professione non è percepita, sia perché il focus degli interessi professionali è altrove, sia perché l’eventuale accesso alla professione potrebbe docente essere solo transitorio, oppure l’attività di docenza potrebbe essere esercitata in concomitanza con la libera professione, con una distribuzione di giudizi di valore abbastanza variabile tra l’uno e l’altro impegno lavorativo.
In teoria, chi punta sulla professione docente come unico sbocco lavorativo, e campo di realizzazione personale e professionale, dovrebbe avere una maggiore disponibilità a prolungare il periodo formativo iniziale, per investire al meglio le proprie risorse, anche emotive, e non rischiare di soccombere sotto le frustrazioni che una professione così impegnativa, se intrapresa senza gli strumenti opportuni, inevitabilmente porta con sé. A questo bisogno di formazione iniziale, a cui l’attuale governo non sta dando risposte credibili, le università, soprattutto quelle private e on-line, danno invece risposte proprie, sfornando a ritmo continuo corsi a pagamento, il cui livello di qualità e la cui attendibilità delle modalità di verifica per il conseguimento dei titoli dovrebbero essere oggetto di un attento monitoraggio da parte dell’ANVUR.
Si potrebbe obiettare che il ricorso a questi “percorsi formativi “ (se così possiamo chiamarli) non derivi da un bisogno interno, bensì dalla necessità di superare altri concorrenti nelle graduatorie; tuttavia anche questo tipo di interessamento, che, non dimentichiamolo, è oneroso, dimostra una disponibilità ad investire nella professione: voglio superare altri concorrenti perché voglio davvero avere incarichi di insegnamento; se un soggetto avesse delle alternative e puntasse ad altro, non si piegherebbe volentieri a questo ordine di cose, e guarderebbe altrove.
A fronte di questa disponibilità, a prescindere dalle cause, per una formazione professionale che va oltre il percorso di laurea, sarebbe opportuno e doveroso che la politica governasse il fenomeno a garanzia della salvaguardia della qualità e utilità dei percorsi formativi, a beneficio di tutti: degli aspiranti, della scuola nel suo complesso, e quindi, in definitiva, di tutta la società.
Invece l’unica risposta, peraltro già presente nella legge 107 e nei decreti da essa delegati, e uscita indenne dalla scure riformatrice, è il cosiddetto “PF24”, il “percorso integrato” costituito da 24 CFU nelle aree socio-antropo-psico-pedagogica e delle metodologie e tecnologie didattiche. Un percorso che, se opportunamente strutturato, potrebbe al massimo essere utile per l’ammissione ad un percorso abilitante all’insegnamento, e non, certamente, per l’immissione in ruolo. Per il motivo semplicissimo che giustapporre saperi accademici (sia pure di tipo psico-pedagogico, ecc.) ad altri saperi accademici (quelli disciplinari) senza mai aver messo alla prova, sul campo, l’integrazione di tutti quei saperi nelle reali capacità professionali in atto della professione docente, all’interno di un adeguato periodo di formazione e prova, non dimostra nulla sul possesso di quelle capacità professionali. L’unica “macchina della verità” per distinguere un vero docente da un generico esperto disciplinare è costituita da un adeguato tirocinio professionale, come avviene in tutti gli altri campi delle professioni ad elevata responsabilità (si pensi a quello medico o a quello delle professioni liberali); accompagnato, data la peculiarità della professione, dalla riflessione in opportuni laboratori didattici, il tutto sotto la guida di docenti esperti, ad integrazione delle discipline comprese nel PF24. E l’abilitazione alla professione docente dovrebbe essere riconosciuta solo a chi supera positivamente questo periodo di formazione e prova. Il che non significa affatto che non si debba mettere in atto una prima forma di “stabilizzazione”, magari per far fronte proprio a quelle situazioni di carenza di insegnanti di cui abbiamo parlato all’inizio; ad esempio, con un concorso di accesso al corso che abbia come sbocco l’immissione automatica in ruolo in caso di esito positivo della valutazione finale. Anzi, vincere un concorso a monte è certamente una forma di responsabilizzazione e di motivazione alla formazione, che deve essere qualificata e integrata nelle sue parti teoriche e pratiche; proseguire nel ritenere formazione sufficiente per la professione docente (e solo per essa, all’interno delle professioni ad alta qualificazione) la giustapposizione dei saperi disciplinari accademici, sia pur di diversi settori rispetto alla disciplina di provenienza del corso di laurea, è un errore metodologico madornale che avrà profonde conseguenze sulla qualità dell’insegnamento e nella percezione, da parte dei docenti di scuola secondaria, della propria immagine e del proprio status professionale. Un’immagine che è invece ben nitida per i docenti di scuola primaria, per i quali da sempre, all’interno dei corsi magistrali prima, e ora nei corsi di laurea di scienze della formazione primaria, mettono in atto questa integrazione tra teoria e pratica mediante lo studio delle discipline di insegnamento, di quelle dell’area psicopedagogica, il tirocinio e i laboratori didattici, con la presenza strutturale, all’interno dei corsi unviersitari, di docenti esperti provenienti dal mondo della scuola.
La furia devastatrice del decreto 59/17, con l’imposizione dei tempi di una legge finanziaria e la mancata acquisizione del parere del CSPI, ne ha salvato una parte, e come possiamo vedere non è certo la parte migliore... è come se si fossero salvaguardati degli interessi particolari, che nulla hanno a che fare coi reali bisogni del sistema nazionale di istruzione.
Le modalità di acquisizione e riconoscimento dei 24 CFU devono essere profondamente riviste; l’anno di formazione deve tornare ad avere la dignità di percorso di specializzazione di tipo universitario (come avviene per medici e avvocati); e, non ultimo, la valutazione del periodo di prova deve tornare ad essere effettuata, per la salvaguardia della dignità della professione, da un organo collegiale competente, e non, come previsto dall’abrogazione della disapplicazione (mi si perdoni il giro di parole...) del comma 117 della legge 107, tornare nelle mani del solo dirigente scolastico, “sentito” il comitato di valutazione! ...ma, l’impegno dell’attuale maggioranza politica non era quello di abrogare la legge 107? perché riesumarne una parte, che era già stata disapplicata dal Decreto 59? Probabilmente, ammettendo la buona fede, anche questa incongruenza è frutto della frettolosità (...e anche incompetenza?) con cui si è affrontata tutta la questione.
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Maurizio Berni
Insegna Matematica dal 1987. Si occupa di ricerca didattica, formazione, professionalità docente e valutazione. Già supervisore di tirocinio presso la SSIS Toscana e vicepresidente del GFMT, Gruppo di Formatori di Matematica fondato da Giovanni Prodi, è attualmente membro della Commissione Italiana per l'Insegnamento della Matematica e della Direzione Nazionale della Gilda degli Insegnanti.
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